Spade d’acciaio, archibugi e cavalli davano un grande vantaggio ai conquistadores di Cortés, ma la schiacciante superiorità numerica degli Aztechi, unita alla forza della disperazione di chi difende le proprie case e famiglie, stava avendo la meglio sugli invasori. I quali però avevano portato con sé, senza saperlo, potenti e invisibili alleati. Il virus del vaiolo fu il primo a fare strage fra i nativi, fiaccando la loro resistenza e consegnando la vittoria agli spagnoli. Poi arrivarono anche morbillo, influenza, tifo, febbre gialla, difterite e molte altre malattie sconosciute nel Nuovo Mondo, che decimarono la popolazione autoctona e contribuirono a segnare la fine delle civiltà azteca, inca e maya. Come fu possibile?
Il tasso di propagazione
Quando affronta un virus o un batterio e sopravvive, il nostro organismo si ricorda come ha fatto a vincere questa battaglia microbiologica e, se l’aggressore si ripresenta, è in grado di schierargli contro un sistema immunitario sufficientemente allenato per fronteggiarlo e respingerlo. È su questo principio che si basa la vaccinazione, ideata da Edward Jenner nel 1796 e diventata uno degli strumenti di profilassi sanitaria più efficaci. Nel Cinquecento, però, i vaccini non esistevano e, soprattutto, i nativi americani non avevano mai avuto a che fare con il vaiolo, il morbillo e le altre malattie infettive portate dai colonizzatori, contro le quali i loro sistemi immunitari erano del tutto impreparati. E qui la questione si complica. Perché anche nel Vecchio Continente quelle stesse malattie continuavano ciclicamente a mietere vittime, sebbene in misura minore. Il che significa che anche fra gli europei c’erano molte persone i cui sistemi immunitari non si erano mai scontrati con certi virus o batteri, imparando così ad affrontarli. Ma allora perché le stesse malattie si diffondevano molto più facilmente dall’altro lato dell’Atlantico? A spiegarcelo è la matematica.
Quando una persona contrae una malattia infettiva può a sua volta trasmetterla ad altri, con una probabilità che dipende da un insieme di fattori biologici, ambientali e sociali. Nel caso del vaiolo, per esempio, ogni contagiato può infettare in media dai 5 ai 7 individui, numero che sale a 12-18 per il morbillo, che infatti è altamente contagioso, e scende intorno ai 2 per un ceppo influenzale. Che comunque è un valore preoccupante, perché significa che il numero dei contagiati raddoppia a ogni passaggio: da 1 a 2, da 2 a 4, da 4 a 8, da 8 a 16 e così via. Una crescita esponenziale, che nell’arco di appena 20 passaggi (2-3 mesi) porterebbe a oltre un milione di ammalati (per la precisione 220). Questo valore medio, indicato con R0, viene chiamato dagli epidemiologi “numero di riproduzione netto” della malattia e può essere considerato un indicatore del suo massimo potenziale di diffusione. Ma se nella popolazione ci sono alcuni individui resistenti alla malattia i conti cambiano, perché questi non saranno contagiati: la capacità del patogeno di diffondersi sarà dunque inferiore. Si parla in questo caso di “numero di riproduzione effettivo”, indicato con RE, che è sempre minore di R0.
Immunità collettiva
Stimare R0 non è facile, perché questo parametro è influenzato da diversi fattori. Il comportamento sociale per esempio, come dimostra il caso di Ebola. Questo virus è molto infettivo solo nella fase terminale della malattia e solo se si entra in contatto con i fluidi corporei del malato, come sangue, sudore o saliva. Il problema è che i rituali funebri diffusi nei Paesi africani dove Ebola si manifesta più facilmente prevedono che il corpo del deceduto venga lavato, toccato e baciato dai familiari, il che consente al virus di esprimere il suo massimo potenziale di contagio. Altri fattori influiscono invece sul numero di riproduzione effettivo RE, come le misure precauzionali messe in atto: lavaggio delle mani, uso di mascherine per le malattie a trasmissione aerea o dei profilattici per quelle a trasmissione sessuale. Ma al netto di queste caratteristiche, il concetto di “numero di riproduzione” ci aiuta a capire la dinamica con cui si diffonde una patologia infettiva, dando una risposta alla domanda iniziale: la totale assenza di persone resistenti a malattie come il vaiolo o il morbillo nelle Americhe consentì ai relativi patogeni di dilagare con facilità, raggiungendo il loro massimo potenziale di diffusione (RE ≈ R0). In Europa invece, dove parte della popolazione era diventata immune sopravvivendo alle precedenti epidemie, queste stesse malattie si diffondevano con maggior difficoltà, perché RE era minore di R0. Il numero di riproduzione effettivo spiega anche perché, nel Vecchio Continente, le epidemie si presentassero ciclicamente e colpissero più di frequente i bambini. Immaginiamo di essere nell’Europa del Cinquecento e che scoppi un nuovo focolaio di vaiolo: alcune persone sono già immunizzate e non vengono contagiate, altre si ammalano e muoiono, altre ancora si ammalano ma sopravvivono, diventando a loro volta resistenti. A questo punto il virus è in difficoltà, perché molti dei suoi potenziali ospiti o sono morti o sono diventati immuni, e quindi ha pochi bersagli da infettare: il suo RE scende a 1 o anche meno e la sua diffusione è drasticamente ridotta, se non addirittura bloccata. Si è creata quella che viene definita “immunità di gruppo”: i bambini che nascono non hanno un sistema immunitario in grado di fronteggiare il vaiolo ma, fintanto che sono circondati da individui immuni, sono relativamente al sicuro. Col passare del tempo, però, il crescente numero di nuovi nati non protetti diluisce l’immunità di gruppo fornendo sempre più bersagli al virus, il cui RE riprende ad aumentare finché non scoppia un nuovo focolaio. E il ciclo ricomincia.
Rompere il cerchio
L ’uso dei vaccini può tuttavia spezzare questo ciclo, mantenendo un livello di immunità di gruppo tale da impedire la diffusione del virus. Ma quante persone occorre vaccinare per ottenere questo risultato? È sempre la matematica a dircelo. Poniamo di avere a che fare con un focolaio di morbillo il cui R0 sia pari a 15. Ciò significa che ogni malato, in media, potrebbe contagiare a sua volta altre 15 persone. Ma se una frazione V della popolazione è vaccinata, solo la restante frazione (1 – V) sarà suscettibile alla malattia, ovvero
RE= R0(1 – V)
Per evitare lo scoppio di una epidemia è allora necessario che la frazione V di persone vaccinate sia tale che RE risulti minore o uguale a 1, cioè
R0(1 – V) ≤ 1
Con qualche passaggio algebrico si ottiene che dev’essere
V ≥ 1 – 1/R0
Moltiplicando questo valore per 100 si ottiene la copertura vaccinale, espressa in percentuale, necessaria a prevenire l’epidemia. Nel nostro caso, in cui abbiamo assunto che R0 sia uguale a 15, si raggiungerebbe la “soglia dell’immunità di gruppo” (o HIT, dall’inglese herd immunity threshold) con il 93,3% della popolazione vaccinata. Questa sorta di immunità collettiva non evita il contagio dei singoli, ma impedisce che la malattia si diffonda nella popolazione in maniera esponenziale. Ecco i valori di HIT per alcune altre malattie:
Malattia | R0 | 1 – 1/R0 | HIT |
Vaiolo | 5 | 1 – 1/5 | 80% |
Parotite
(“orecchioni”) |
4 | 1 – 1/4 | 75% |
Pandemia
influenzale |
2 | 1 – 1/2 | 50% |
Il discorso resta valido anche nel caso in cui l’efficacia del vaccino non sia assoluta, come per semplicità abbiamo ipotizzato qui. Occorrerà solo alzare un po’ di più la soglia.
L’origine dei “vaccini”
Per rispondere bisogna tornare al XVIII secolo, quando il medico britannico
Edward Jenner (1749-1823), che lavorava nelle campagne nei dintorni di Bristol, ebbe un’idea su come affrontare il vaiolo. Aveva sentito dire che le mungitrici di latte erano in qualche modo protette da questa malattia e che ciò fosse dovuto all’averne contratta una forma meno pericolosa, il vaiolo bovino, mungendo animali infetti. Jenner ipotizzò che il vaiolo bovino potesse essere usato come meccanismo di protezione trasferendolo a una persona sana, e fece un esperimento: usò il pus delle vesciche di una mungitrice e lo inoculò in un ragazzino sano, che per qualche giorno ebbe la febbre ma poi guarì. Quindi lo infettò con pus di vaiolo umano (altamente pericoloso anche in piccole dosi) e in effetti il ragazzino non si ammalò. Nonostante la condotta poco etica per gli standard odierni, il medico inglese aveva scoperto quello che venne chiamato “vaccino” proprio perché derivato da vacche malate. (J.D.T.)
Con l’immunità di gruppo, anche chi non ha potuto vaccinarsi è in buona misura protetto. È la matematica a dirlo.
Bene comune
In definitiva, la vaccinazione contro una data malattia infettiva porta non solo un beneficio diretto alla persona vaccinata, ma anche indirettamente a tutta la comunità. Se si riducono le probabilità di un contagio generalizzato, infatti, il rischio di ammalarsi diminuisce anche per chi non è vaccinato. È il caso dei neonati, degli anziani, delle persone affette da certe patologie e dei cosiddetti nonresponder, cioè coloro che non producono anticorpi neanche dopo la vaccinazione (meno del 5% per il meningococco, fino al 15% per la pertosse). Normalmente queste persone sarebbero ad alto rischio di infezione, ma se la soglia dell’immunità di gruppo è stata raggiunta, la circolazione dell’agente patogeno è ridotta al punto che anche chi non ha potuto vaccinarsi risulta in buona misura protetto. È la matematica a dirlo. Ora tocca a voi parlarne agli amici.